Ognuno di noi possiede i cosiddetti “cento linguaggi” di cui parla Loris Malaguzzi nella sua nota poesia “Invece il cento c’è”. Ciò non significa che abbiamo bisogno di cento materiali o strumenti, ma che possiamo relazionarci con il mondo in “cento” e più modi diversi. L’importante è non preoccuparsi del risultato o di un prodotto finale, come il disegno realistico di una foglia o di un fiore, ma semplicemente lasciarsi coinvolgere ed entrare in relazione con quella foglia o quel fiore.
Per esempio, avete mai osservato davvero i colori di un fiore che vi piace? Siete riusciti a contarli, nominarli? L’impresa non è semplice come sembra. Esistono così tante tonalità di verde (o di qualsiasi altro colore), che la nostra lingua non possiede abbastanza parole per nominarle. Ma la questione si complica ancora di più, perché il colore cambia nel tempo, attraverso le stagioni, la giornata, e addirittura, guardando bene, anche in un solo secondo. Basta cambiare punto di vista, o che una nuvola passi davanti al sole.
Ma allora qual’è il “vero” colore di una cosa?
Come possiamo sostenere la ricerca di un bambino che, per esempio, dimostra interesse nei confronti delle sfumature cromatiche di un fiore? Prima di tutto, credo, condividendo il suo stupore e dando valore alle sue osservazioni, magari facendo qualche domanda. Tuttavia, a volte questo viene frainteso: interrogarsi insieme ai bambini non significa intervistarli e annotare le loro risposte per la “documentazione” scolastica. Una domanda non è necessariamente uno stimolo positivo per il processo di ricerca: potrebbe essere posta troppo presto o contenere già una certa risposta. Come, per esempio, chiedere perché i colori cambiano con la luce prima che i bambini lo abbiano notato. Insomma, si può anche restare ad osservare in silenzio.
Oltre a interrogarsi insieme, quali materiali offrire per approfondire una ricerca sui colori, e come? Naturalmente, non esiste una sola risposta, ma tante possibili a seconda del contesto. Tuttavia, se il nostro intervento si limita ad invitare i bambini a scegliere dei pennarelli, la nostra sarà certamente un’offerta molto povera rispetto le infinite possibilità di creare e mescolare i colori (“e poi cento cento cento ma gliene rubano noventanove…”).
Se, per esempio, i bambini sono abituati a muoversi in autonomia nell’atelier o conoscono già diversi materiali artistici, potremmo porre loro la questione: quali sono i materiali più adatti per una ricerca sulle sfumature? Dopodichè, cercheremo di seguire il corso del processo, sostenendolo e potenziandolo. Forse i bambini sceglieranno comunque i pennarelli, all’inizio, ma probabilmente si renderanno presto conto che le tonalità cromatiche non sono abbastanza… e saranno portati a considerare altre soluzioni, magari dei colori liquidi come tempere, inchiostri o acquerelli, che si prestano per loro natura a indagare il fenomeno della sfumatura grazie alle proprietà dell’acqua.
Qual’è il punto esatto in cui finisce un colore e ne comincia un altro? Quando non si riescono a definire chiaramente i confini tra i colori, diciamo che c’è una sfumatura. Ma che cos’è esattamente una sfumatura?
Secondo l’artista Paul Klee, la sfumatura è un tipo di “ordine” che contraddistingue il mondo naturale, differenziandolo dal mondo artificiale. Il “naturale” si sviluppa attraverso un processo continuo di “crescendo” e “diminuendo” non strutturato, dove i contrari fluiscono l’uno nell’altro. L’ordine artificiale, invece, è più povero ma reso percepibile da un’organizzazione suddivisa in passaggi misurabili.
Attraverso la sua ricerca artistica, Klee ha cercato di individuare quali sono le regole e i principi secondi i quali si sviluppano le forme vegetali. Gli appunti e i disegni di questa indagine oggi sono raccolti nei due bellissimi libri “Teoria della forma e della figurazione”.
Per esempio, come nasce la forma di una foglia? Paul Klee pensava che le nervature costituiscono delle linee di energia costruttiva e che la forma finale dipende da queste forze, nel senso che il contorno si forma laddove si interrompe l’irradiazione lineare. Secondo questa prospettiva, quindi, la forma esterna è il risultato di alcune forze (o cause) interne. Ma esistono molte altre risposte possibili.
Il biologo e matematico D’Arcy W. Thompson, per esempio, nel suo trattato “Crescita e forma” si avventura nella ricerca delle formule algebriche che regolano la crescita delle forme naturali.
Bruno Munari, invece, seguendo una pista più empirica, suggerisce che per capire una forma organica non sia utile “ricopiarla” ma “provocarla”, in modo che essa si riveli con naturalezza. Ad esempio soffiando su una goccia di inchiostro su un foglio e osservando come la materia tenda a ramificarsi fino al suo esaurimento.
Qual è dunque la risposta giusta? Non ne esiste solo una, nè tantomeno un solo modo di cercarla. Le risposte assolute sono pericolose, spengono all’istante quello stupore generatore di domande che è il motore di ogni conoscenza. Così come sono tanti i linguaggi per cercare una risposta, servono tante risposte per avvicinarsi alla verità.
Perchè, allora, esistono delle proposte ricorrenti associate al Reggio approach e alla teoria dei cento linguaggi? Non è forse un paradosso? Alcuni degli esempi più in voga sono il disegno dal vero di un fiore posizionato al centro di un tavolo e il disegno dell’ombra degli oggetti.
Forse non abbiamo abbastanza fiducia nella ricchezza dei processi che possono nascere dai bambini e per questo ci appoggiamo a delle soluzioni “sicure”, già pronte? Perchè proprio questa proposta tra le infinite modalità possibili di esplorare le ombre?
Per esempio nel mio caso, l’incontro con le ombre non mi ha portato ad esplorarle attraverso il disegno. Una volta, durante una passeggiata in mezzo alla natura, mi sono imbattuta in una serie di piccole ombre di foglie lungo alcuni rami. Sembrava una specie di codice, un alfabeto di vari equilibri tra spazi pieni e vuoti all’interno della stessa forma. Mi interessava soprattutto il ritmo visivo sempre in movimento creato dall’interazione tra la luce, le foglie, il vento e il mio punto di vista. Il processo, dunque, mi stava portando a giocare con dei pentagrammi vegetali…
E invece il bambino interessato alle sfumature del fiore? Chissà, magari avrebbe continuato ad approfondire il tema del colore anche attraverso le ombre: dove va a finire il colore quando c’è un’ombra sopra? E l’ombra ha un suo colore?
Credo che sperimentare in prima persona il processo creativo e il suo potenziale sia una condizione necessaria per avere fiducia nei processi dei bambini, per poterli riconoscere e sostenere.
Quel fiore, con le sue sfumature, è unico, ma nello stesso tempo contiene molte dimensioni diverse – scientifica, estetica, filosofica, emozionale, narrativa – tutte connesse tra loro. L’atelier è un luogo in cui alcuni di questi percorsi esplorativi possono prendere forma, attraverso materiali e strumenti, spazi e tempi. Quel fiore è unico, ma nello stesso tempo si riflette in “cento” riflessi, uno per ogni linguaggio espressivo e uno per ogni persona. Non è bellissimo?
Buone esplorazioni nella natura!