Mi ha sempre affascinato l’idea di un atelier come spazio flessibile, itinerante, che si può allestire ovunque con qualsiasi materiale.
Non servono necessariamente dei materiali artistici in una stanza dedicata: può essere un cavalletto in mezzo a un prato, una valigia piena di oggetti su una panchina, un carrello tra le corsie di un ospedale, un quaderno e una matita sul vagone di un treno, una bicicletta e una macchina fotografica, e chi più ne ha più ne metta.
Ma allora, se un atelier può essere dappertutto, significa che qualsiasi luogo è un atelier di per sé? E che non serve scegliere e organizzare in modo intenzionale? Quali sono le caratteristiche imprescindibili, il minimo indispensabile per definire un Everywhere Atelier?
Da questa riflessione ha preso forma un manifesto ancora in evoluzione, un nucleo di condizioni minime dal quale si possono originare infinite variazioni. Eccolo.
MANIFESTO DELL’EVERYWHERE ATELIER
Qualsiasi luogo può diventare un atelier.
Un atelier si crea attraverso la definizione di una cornice spazio-temporale e la scelta di uno o più materiali.
Tale cornice è un confine chiaro ma flessibile, in relazione con il contesto.
Dentro un atelier avvengono processi di esplorazione, trasformazione e interazione con i materiali attraverso il fare, utilizzando le mani e i sensi come strumenti principali.
I materiali sono interlocutori attivi e l’interazione avviene nel rispetto della loro natura.
Processo e prodotto sono due aspetti inscindibili dell’esperienza creativa, quindi l’obiettivo non è mai un prodotto fine a se stesso.
Lo spirito di accoglienza e l’assenza di giudizio favoriscono l’autenticità e la libertà di espressione.
Come ti risuona? Aggiungeresti o cambieresti qualcosa?
Se come credo, si tratta di una potenzialità universale che ci contraddistingue come esseri umani, abbiamo a portata di mano qualcosa di straordinario: la capacità di creare un’oasi al di là di criteri estetici e di confini geografici, sociali, culturali; una zona franca dove ritrovarci unicamente per il piacere del fare e di costruire nuove connessioni con noi stessi e con il mondo.
Nelle ultime pagine del libro “The Good Enough Studio”, che ho avuto la fortuna di tradurre, Nona Orbach scrive:
Che cosa rende uno spazio (e il tempo che trascorriamo in esso) uno “studio”? È un luogo che non deve necessariamente assomigliare a un atelier: è quello che tu riconosci e stabilisci essere il posto giusto come setting per il tuo lavoro. È anche il tempo che concedi a te stesso con responsabilità e compassione, caratterizzato da un senso di benevolenza e ottimismo.
(…) La chiave è essere presenti, nella consapevolezza che ovunque ci troviamo, tutto nel mondo rappresenta metaforicamente molto più di quello che sembra. Una panchina al parco, un kimono, un cane che ti cammina accanto scodinzolando. Forse è un prato, o un luogo nella mente.
E se tutte queste officine creative, sparse un po’ ovunque, acquisissero consapevolezza delle radici comuni e si connettessero per creare una rete? Proviamo? Unisciti al manifesto e raccontami il tuo Everywhere Atelier per cominciare a costruire una mappa!
Nel frattempo, a giugno 2024 si terrà il primo gruppo di studio internazionale dedicato all’Everywhere Atelier, tra le province di Reggio Emilia, Modena e Bologna: sei giorni itineranti che sto preparando con molta cura insieme a Laura Malavasi, durante i quali 20 persone provenienti da diverse parti del mondo incontreranno atelieristi, artisti, materiali, oggetti e persino animali, per creare relazioni attraverso il fare.
Cercheremo di documentare il percorso in modo puntuale sul profilo Instagram di @robertapuccilab, sperando sia il primo di una lunga serie.
Non mi resta che augurarti buone esplorazioni, ovunque tu sia!
Quando un materiale diventa uno scarto? In relazione a quale criterio lo definiamo tale?
Rifettendo su questo tema, mi sono resa conto che un materiale viene considerato “scarto” sempre in relazione a un certo contesto, obiettivo o significato dal quale viene escluso. Uno scarto di cibo è tale rispetto una certa ricetta, ma può ancora costituire un ingrediente utile per una ricetta diversa o magari diventare cibo per animali o materia prima per altre lavorazioni.
Uno scarto industriale è tale rispetto a un determinato processo di lavorazione, che ha come scopo produrre un certo prodotto, e così via. Quindi potremmo affermare che il concetto di scarto è sempre relativo, non assoluto, e cambia con il punto di vista da cui lo consideriamo.
Per esempio le strisce di carta sono uno scarto tipografico ma un materiale prezioso per i miei laboratori creativi.
Dal punto di vista del processo creativo, ciò che viene comunemente considerato scarto – che quindi non è percepito dentro una conice di senso predefinita – può portare con sé una qualità molto importante: quella dell’imprevisto, dell’inaspettato che ci sorprende e che apre delle possibilità altrimenti impensabili.
Esther, per esempio, è nata da una striscia di carta piegata, rimasta in un angolo del tavolo insieme ad altri pezzi di carta, come scarto della costruzione di non ricordo cosa.
Il giorno dopo, l’ho toccata accidentalmente facendola oscillare e ho cominciato a giocarci, affascinata dal quel movimento casuale. Sembrava viva, assomigliava a qualcosa. Una forma cominciava a definirsi e io cercavo di farla emergere, di renderla visibile con le forbici, finché… eccola, ciao Esther!
Non sarei mai riuscita a creare Esther attraverso una ricerca intenzionale: ho avuto bisogno di un imprevisto, del caso, di uno sguardo nuovo su qualcosa di non-finito e apparentemente privo di senso. Del potenziale creativo di uno scarto.
Dove nasce quindi un’idea, è nella nostra testa o nel materiale? Dentro o fuori di noi? Io credo che si trovi a metà strada, ovvero nell’incontro, nella relazione tra noi e il materiale – proprio quel materiale particolare, con le sue specifiche caratteristiche osservate in modo aperto e curioso. Cosa succede se proviamo a recuperare dal cestino della carta dei pezzetti di scarto con questo sguardo?
Qualsiasi cosa può attivare un nuovo inizio. Forme impreviste – non riconoscibili e indefinibili – diventano uno stimolo per l’immaginazione.
Per riconoscere il potenziale creativo di un materiale (specialmente se considerato “scarto”) è importante decontestualizzarlo e posizionarlo in uno spazio che lo valorizzi, con un po’ di vuoto intorno che ci permetta di osservare le sue caratteristiche da diversi punti di vista.
Il modo di disporre le cose, gli accostamenti, la quantità, l’organizzazione dello spazio: sono tutti elementi interconnessi che influenzano la nostra percezione e la nostra interazione con le cose.
Non è un caso che la cura dello spazio e dei materiali sia una qualità fondamentale per i luoghi che si propongono di rimettere in circolo materiali di scarto, come i centri di riuso creativo.
Una cosa bella – di cui sappiamo vedere la bellezza – non diventa scarto.
Il rischio, a questo punto, è quello di non buttare via niente (e di non avere più bisogno di comprare cose). Tutto può continuare a vivere attraverso la trasformazione, acquisendo parallelamente nuove funzioni e nuovi significati.
Il concetto di scarto nasce nel pensiero di chi lo attribuisce, e infatti in natura non esiste. Diventare consapevoli della relatività e della potenzialità dello scarto è un atto rivoluzionario.
Quali materiali scegliere per sperimentare in modo creativo e dove cercarli? Nei negozi, in casa o in tutto l’ambiente intorno a noi? Credo che l’atelier sia in realtà una metafora di un incontro significativo e creativo con il mondo, quindi potenzialmente attivabile ovunque e con qualsiasi materiale, non solo in una stanza dedicata, con i classici materiali artistici. Che dire, per esempio, della neve?
Il mio suggerimento è innanzitutto quello di non dare niente per scontato e immaginare di vedere quel materiale per la prima volta: con mani e sguardo curiosi, attraverso un incontro con tutti i sensi, il corpo, il movimento, liberi da aspettative e obiettivi predefiniti.
Del resto, prima di tutto, noi siamo materia. E non sempre è necessario creare o capire qualcosa. Possiamo, semplicemente, vivere un incontro per il gusto di conoscersi? Non solo di uso e consumo, quindi, ma anche ascoltando e osservando l’altro, come un ospite discreto e gentile.
Ciao neve, chi sei?
Che rumori fa la neve? Com’è sulla pelle? Che sapore ha? In quanti modi si può prendere in mano e manipolare, e con quali oggetti e strumenti, oltre alle mani? Quanti tipi di neve ci sono, di quanti bianchi, consistenze, sfumature, texture?
Non immaginavo che nella lingua svedese esistessero più di 50 parole diverse per definire la neve, alcune di uso comune in tutto il paese, altre più specializzate usate solo in certe zone o per motivi specifici, ad esempio per riconoscere se c’è il rischio di una valanga.
Eccone alcune:
Kramsnö – neve adatta per fare le palle di neve (letteralmente “neve-abbraccio” o “neve compressa”)
Drivsnö – neve alla deriva
Djupsnö – quando lo strato di neve è molto profondo
Fimmern eller fimmeln – fiocchi molto piccoli a temperatura molto bassa, come un pulviscolo nell’aria
Firn – neve fine e granulosa
Fjunsnö – soffice e luminosa
Flaksnö – neve con uno strato ghiacciato in superficie, come un coperchio
Flister – neve a grana fine, di cui ti accorgi a malapena ma che ti rimane appiccicata in faccia
Knarrsnö – quella che scricchiola quando ci cammini sopra
Nysnö – neve nuova
Slask – fanghiglia di neve
Snöhagel – misto di grandine e neve
Tö – mucchi di neve lasciati lì finché si sciolgono
Upplega – neve accumulata sui rami deli alberi
Yrsnö – neve che vola in tutte le direzioni contemporaneamente
La neve nasconde, gioca a nascondino, ma può anche diventare terrificante durante una tempesta e farci perdere l’orientamento. Può essere dura e soffice, silenziosa o rumorosa. E ogni inverno continua a meravigliarci. Spesso abita i ricordi più belli dell’infanzia. I miei primi incontri con la neve, da bambina, sono avvenuti attraverso la distanza di tanti strati di imbottitura e i movimenti lenti, un po’ goffi, che quell’equipaggiamento da astronauta permetteva. La neve era qualcosa di irresistibilmente attraente quanto scomoda da raggiungere. Forse questo imprinting ha contribuito, in seguito, a plasmare il mio caratteristico approccio contemplativo? Cosa caratterizza invece il tuo approccio? Le modalità di fare esperienza sono diverse per ogni persona: siamo in grado di riconoscerle, autorizzarle e valorizzarle tutte?
Tutto diventa morbido, silenzioso, smussato, oppure scricchiolante e rivestito di una corazza di ghiaccio. Neve come un foglio di carta incontaminato steso sul paesaggio, dove possono comparire impronte e mappe di percorsi.
Molti autori si sono fatti ispirare da questa magia. Tra i tanti, Aoi Huber-Kono con il libro Era inverno e Bruno Munari con il suo Cappuccetto bianco, entrambi pubblicati dalle Edizioni Corraini. La personalità del bianco, con tutte le sue infinite variazioni, si esprime al massimo nella neve. Quanti tipi di bianco siamo in grado di riconoscere e identificare con un nome specifico? E siamo proprio sicuri che non ci siano sfumature di altri colori, qua e là?
La neve è parte di un contesto più ampio, naturalmente, e in relazione con esso. Dovremmo sempre cercare di tenere in mente questa relazione quando entriamo in contatto con la neve e con il suo ambiente per esplorarlo o modificarlo. Le bellissime immagini del post ci offrono diversi esempi in questo senso, di interazione rispettosa e dialogo con il contesto.
Come possiamo creare delle nuove connessioni tra la neve e gli altri elementi naturali dell’ambiente? In quanti modi la neve può incontrare un albero, tenendo in considerazione la sua specifica forma, dimensione, posizione? Attraverso delle palle di neve, per esempio: e ogni volta la composizione sarà differente, a seconda dell’albero o del gruppo di alberi in questione.
Oppure usando alcuni materiali naturali disponibili nelle vicinanze per creare una composizione sulla neve (anziché con la neve), che quindi non è più materia plasmabile ma supporto accogliente.
La neve può diventare anche un materiale con cui disegnare: per addizione (ovvero aggiungendo il materiale su una superficie)…
…o per sottrazione (cioè rimuovendo il materiale), come nelle immagini qui sotto. Gli strumenti e le texture da sperimentare sono praticamente infiniti, e di nuovo, possibilmente in relazione con la forma e la tipologia della superficie che accoglie i segni (un tronco, una roccia, uno spazio tra un gruppo di alberi, la riva di un fiume, ecc.).
Neve è materia da modellare e l’amato pupazzo di neve non ha l’esclusiva! Di quali oggetti e creature effimere si popola il vostro paesaggio? Sedie, salotti, ippopotami, unicorni, la mano di un gigante che emerge dalla terra, o semplicemente delle forme organiche ispirate dal contesto…
Ogni trasformazione ha un impatto sull’intero paesaggio: è come un dialogo tra materiali, forme e colori, tra la natura e la persona che opera con i suoi elementi.
Chi conduce, chi segue? Da dove viene l’ispirazione? Nelle opere qui sotto vediamo due esempi piuttosto diversi: in un caso (nelle opere a sinistra) la composizione è stata probabilmente ispirata dalla conoscenza indiretta della forma del fiocco di neve, poi rielaborata esteticamente dell’artista. Nell’altro caso, invece, l’opera sembra scaturire quasi spontaneamente dall’incontro della forma della pietra con i fili d’erba. Incontro che avviene grazie all’azione dell’artista ed è messo in evidenza dalla neve, come se questa fosse una specie di intermediario tra la pietra e l’erba.
Passiamo ora a osservare un singolo fiocco di neve, questo misteroso microcosmo. Ogni fiocco è un unico, non ce ne sono due uguali. Com’è possibile e come avviene il processo di formazione?
Un fiocco si crea quando microscopiche gocce d’acqua passano attraverso una massa d’aria molto fredda e congelano, formando inizialmente un piccolo prisma.
Le regole intrinseche della struttura molecolare plasmano la forma del primo nucleo di cristallo e direzionano la sua crescita. Ma come spiega Ian Stewart nel bellissimo libro “Che forma ha un fiocco di neve?”, durante la discesa verso il suolo il cristallo può attraversare masse di umidità e temperature variabili, diverse velocità del vento e pressioni atmosferiche. Queste minuscole variazioni favoriscono o inibiscono la formazione di “facce piane” o di “rami” della struttura cristallina, e influenzano il loro modo di combinarsi, cosicchè la forma finale dipende dalle condizioni che il fiocco incontra durante il suo viaggio, fino al contatto con il suolo.
La variabilità dei parametri che entrano in gioco è tale da garantire una gamma praticamente illimitata di varianti morfologiche.
Quanta meraviglia e quanti misteri contenuti in un microscopico granello… come possiamo preservare questo stupore (e le domande che esso suscita) all’interno di un contesto educativo, supportando le ricerche dei bambini senza fornire delle risposte chiuse già pronte?
Una questione mai scontata su cui vale la pena soffermarsi, come educatori e genitori.
Per chi volesse continuare a esplorare la grammatica della neve, suggerisco di approfondire il lavoro delle artiste Ceca Georgieva e Lucia Pec, dell’educatrice e autrice Suzanne Axelsson e del fotografo Alexey Kljatov – che ringrazio di cuore per i preziosi contributi. Ma soprattutto, se avete la fortuna di poterla raggiungere facilmente, vi invito a lasciarvi sorprendere da un incontro a tu per tu con la neve, e a lasciarvi condurre, senza sapere per quale destinazione.
Benvenuto caro amante della natura! Vorrei condividere uno strumento molto semplice per connetterci in modo creativo con l’ambiente che abbiamo intorno: il “diario naturale”.
Non ci sono regole, ognuno può farlo a modo suo. Ti servirà solo un quaderno, qualche strumento di scrittura o disegno e poi uscire all’aperto, in un giardino, un cortile, un bosco.
Scegli con cura il quaderno e gli strumenti che userai: matita, penna, pennarelli, gessetti, evidenziatori, matite colorate… Fogli bianchi, colorati, a righe, a scacchi… Ogni materiale ti solleciterà in modo diverso, producendo particolari sfumature espressive. Comunque non preoccuparti: va benissimo cominciare anche con un semplice quaderno e una matita, poi nel tempo potrai cambiare gli strumenti in modo più intenzionale.
Cosa contengono le pagine di un diario naturale? Parole, disegni, foglie, petali, macchie, segni. La forma di una nuvola. Il ritornello di una canzone. La traiettoria di un insetto. Una collezione di ombre. Un ricordo. Libere associazioni di immagini o parole, nate in questi preziosi momenti liberi dagli impegni quotidiani, a contatto la natura.
Può significare, per esempio, sintonizzarsi con la spinta verso l’alto dei fili d’erba. Non importa il risutato ma il gesto, la connessione.
Cerca di dedicare al diario un po’ di tempo in modo regolare. Non importa l’ordine nelle pagine, nel senso che puoi andare avanti e indietro a tuo piacimento, o lasciare una pagina vuota, come per esempio quando il colore passa dall’altra parte e lascia un segno che non ti piace: magari nel tempo lo potrai trasformare.
Il diario naturale si scrive in un tempo sospeso, in cui gli occhi e la mente sono aperti, ricettivi, ma non cercano niente di particolare. Le cose arriveranno, piccole o grandi, e si appoggeranno sulle pagine. Il diario è anche un modo per legittimarsi a non dover essere produttivi e funzionali, almeno per qualche breve momento.
È un piccolo gesto di riconciliazione con la natura, e forse anche con noi stessi.
L’uomo si sente isolato nel cosmo, poiché non è più inserito nella natura ed ha perduto la sua “identità inconscia” emotiva con i fenomeni naturali. Questi, a loro volta, hanno perduto a poco a poco le loro implicazioni simboliche. Il tuono non è più la voce di una divinità irata, né il fulmine il suo dardo vendicatore. I fiumi non sono più dimora di spiriti, né gli alberi il principio vitale dell’uomo, né il serpente l’incarnazione della saggezza o l’antro incavato della montagna il ricetto di un grande demonio. Nessuna voce giunge più all’uomo da pietre, piante o animali, né l’uomo si rivolge ad essi sicuro di venire ascoltato. Il suo contatto con la natura è perduto , e con esso è venuta meno quella profonda energia emotiva che questo contatto simbolico sprigionava. Carl G. Jung, “L’uomo e i suoi simboli”